domenica 17 luglio 2022

“UOMINI CONTRO” DI FRANCESCO ROSI: GUERRA E LOTTA DI CLASSE. UN LIBRO DI SAVINO CARRELLA E PASQUALE GERARDO SANTELLA

 di

Enzo Rega


[Unisco in un unico pezzo articoli usciti in "Obiettivo Saviano" e "Infiniti Mondi". Recupero il titolo usato in "Infiniti Mondi"]





  Il 15 novembre 1922 nasceva a Napoli, nel quartiere Montecalvario, il regista Francesco Rosi, al quale si devono pellicole come La sfida, Salvatore Giuliano, Le mani sulla città, Il caso Mattei, Cadaveri eccellenti fino all’ultimo, La tregua, da Primo Levi. Tutti film segnati da passione civile e impegno politico. Nell’anno del centenario della nascita lo ricordiamo con un libro dedicato a uno dei suoi film più significativi, Uomini contro, uscito nel 1970. Il libro a cui ci riferiamo, ricco di immagini, è uscito nel 2021 in italiano e in francese per le edizioni Gremese e si deve a Savino Carrella e a Pasquale Gerardo Santella.

   La struttura e le intenzioni del libro  

   Vidi per la prima volta Uomini contro di Francesco Rosi in occasione di un Cineforum presso il cinema Zara di Palma Campania, ora Teatro comunale. Era il 1976 ed ero studente liceale. Tra gli organizzatori un giovane Pasquale Gerardo Santella, tra i più ancor giovani spettatori l’amico Savino Carrella, anche lui studente. Sono loro gli autori di questo bel volume dedicato al capolavoro di Francesco Rosi, un libro ricco di foto pubblicato contemporaneamente in italiano e in francese nelle prestigiose edizioni Gremese, specializzate nella settima arte. Gli autori si sono divisi i compiti: Gerardo ha curato l’Introduzione, il Prologo, l’Epilogo e i Materiali; Savino Il racconto del film.

   Santella, in un ampio lavoro di “sintesi”, si è preoccupato di calare Uomini contro nel contesto della Grande Guerra, del cinema storico e degli altri film dedicati a quegli eventi bellici fino a Torneranno i prati (2014) di Ermanno Olmi, nonché nel clima proprio degli anni in cui è stato realizzato: il film è del 1970, quindi a ridosso della contestazione del ’68.

   Carrella ha compiuto un’analitica lettura scena per scena della pellicola, con attenzione agli aspetti tecnici dello specifico filmico, ma anche con un riscontro puntuale, volta per volta, con il libro al quale è ispirato, Un anno sull’Altipiano di Emilio Lussu, uscito dapprima nel 1938 in Francia, dove lo scrittore sardo era esule, e poi in Italia nel 1945 (il libro è disponibile nell’edizione Einaudi), riscontrandone sia le precise corrispondenze sia le evidenti differenze dovute al discorso che il regista napoletano portava avanti: non solo il pacifismo, ma anche l’antimilitarismo e la critica del potere.

   In un post su Fb, Santella sintetizza così l’aspetto e l’intento del libro scritto con Carrella: “Si tratta di una lettura storico-sociologica del film di Rosi con un confronto analitico con il romanzo Un anno sull’Altipiano di Lussu. Ma è soprattutto una condanna radicale degli orrori di tutte le guerre”.

 

   Verso il film: Santella racconta il suo “incontro” con Rosi e la guerra

   Ma seguiamo più da vicino l’articolazione del libro.

   Come ho fatto io stesso – mimeticamente – all’inizio di questo pezzo, Santella, aprendo il libro, parte dalla sua esperienza personale, per arrivare al film, e passare dalla microstoria alla macrostoria. Sappiamo così che il suo incontro con Rosi avviene proprio sul set del suo primo film, La sfida (1958), dedicato al camorrista Pascalone ’e Nola, che poi era di Palma Campania: nelle campagne di Palma, paese degli autori di questo libro, furono girate alcune scene, alle cui riprese assisté Gerardo ragazzino. Il suo incontro con gli eventi della guerra era invece mediato dalla presenza del nonno Gerardo, reduce “refrattario a qualsiasi manifestazione retorica che ricordasse la guerra, di cui preferiva non parlare” (p. 13): un rifiuto che il nipote Gerardo poté spiegarsi quando, con la visione di Uomini contro, ebbe idea delle atrocità belliche. Infine, l’avvicinamento all’ambientazione del film si completa con il racconto dei primi anni di insegnamento di Gerardo, proprio sull’altopiano, alle pendici di Asiago, in Veneto.

 

   La guerra vista dal basso e il cinema storico

   In questo modo, veniamo dunque introdotti nello specifico del film, ma anche del libro. Il riferimento alla guerra del nonno è funzionale a comprendere un aspetto fondamentale: “la storia vista dal basso”, dalla “gente comune”. I protagonisti non sono qui capi di stato e comandanti militari, benché vi compaia lo spietato generale Leone (nei suoi panni perfettamente calato l’attore francese Alain Cuny), ma “le degradanti condizioni della vita in trincea, l’insubordinazione dei soldati agli insensati ordini dei comandanti, la fraternità con i nemici; ‘antieroi’ quali i disertori, ed elementi che hanno avuto notevoli effetti sul piano sociale, come la fame, il freddo, le malattie, l’incontro e l’interazione al fronte di una babele di dialetti, abitudini e costumi diversi” (p. 15).

   Il cinema diventa dunque una “fonte storica” che non dà solo informazioni sul passato, ma lo mette in scena, il che corrisponde all’intenzione di Rosi di rendere lo spettatore attivo. Le immagini di Rosi traducono – pur nella libertà interpretativa del regista, che a sua volta crea la propria opera personale a partire da un testo già esistente – il racconto di Lussu, il quale, nel suo diario di guerra, non ha voluto raccontare “tutta” la prima guerra mondiale – da lui interamente combattuta per tre anni e mezzo – ma darne un terribile assaggio concentrandosi su un segmento particolare: il periodo nel quale la sua Brigata Sassari, dal maggio 1916 al luglio 1917, è andata ripetutamente a infrangersi contro le inespugnabili trincee austriache. Offrire un solo spaccato, osserva Santella, spinge il lettore ad andare mentalmente a prima e a dopo prolungando nel tempo l’orrore della guerra. Per dare l’idea dell’insensatezza della guerra, Rosi comincia il film con uno scontro notturno tra due pattuglie italiane che si sono scambiate reciprocamente come austriache, un caso di “fuoco amico”.

 

   Lo specifico filmico e il confronto con il libro

   Carrella, aprendo la propria sezione, sottolinea, a proposito di questo episodio notturno iniziale, la modalità formale con la quale lo tratta il regista in vista di ciò che vuole trasmettere: “Buio, così buio che, verghianamente non ci si vede neanche a bestemmiare. Spente le luci della sala, inizia il film, ma lo schermo è completamente nero. Il buio della sala si fonde con quello dello schermo. Lo spettatore resta così al buio, condivide la situazione dei personaggi di cui si cominciano a udire le voci: il regista ci vuole dire che sarà un’esperienza che ci colpirà come uno schiaffo in pieno volto, che il nostro viaggio nella follia della guerra non sarà accomodante” (p. 49). Possiamo aggiungere, con riferimento alla teoria della comunicazione, che come il silenzio, anche il buio “parla”. E il silenzio e il buio sono infranti dalle grida dei soldati e dai lampi di colpi di fucile e bombe a mano. L’episodio, c’informa Savino, è identico a quello del libro. Il buio non ci ha ancora lasciati, perché è su uno sfondo nero che scorrono i titoli di testa, finché, da una nebbia spessa cominciano a emergere figure di soldati. Non è presente invece nel libro l’episodio successivo nel quale alcuni militari vengono legati ai reticolati, esposti al fuoco nemico: entra in gioco il metodo-Rosi, cioè integrare il materiale desunto dal libro di Lussu attingendo ad altre fonti; in questo caso la fonte è il padre del regista che, in forza al Genio Militare, aveva scattato foto di soldati sottoposti a quella terribile punizione. Tra le differenze rispetto al libro ne va segnalata una, per così dire, strutturale: se nel diario di Lussu fa spesso capolino l’ironia, pur nelle vicende tragiche, “Nel film di Rosi, invece, non c’è l’ironia del libro; il regista, nella sua denuncia degli orrori della Grande Guerra ma di tutte le guerre, rinuncia all’arma dell’ironia e va avanti a colpi di accetta, mantenendola affilata attraverso la rabbia e l’indignazione” (p. 66), osserva Carrella che sottolinea come la mancanza di ironia sia cifra stilistica che caratterizza tutto il cinema del regista, tranne qualche eccezione. Infine, nel film si sottolinea maggiormente l’aspetto politico: si polarizzano nei due personaggi del sottotenente Sassu (impersonato da Mark Frechette) e del sottotenente Ottolenghi (Gianmaria Volonté) il liberalismo e il socialismo, e con le loro posizioni viene sintetizzato un episodio più articolato nel libro. Ottolenghi dice che è contro i comandi sia italiani sia austriaci che bisognerebbe sparare, e bisognerebbe sparare fino a Roma, concludendo: “Il popolo va al governo. È il socialismo” (p. 76).

 

   Il “nemico interno” e la lotta di classe: un messaggio universale

   È così che Carrella può spiegare il titolo Uomini contro: non “nemici contro”. I soldati italiani e austriaci non sono altro che “uomini” costretti a uccidersi, e non mancano nella guerra episodi nei quali i militari contrapposti nelle trincee fraternizzano tra loro, come in tregue tacitamente stipulate in occasione di festività, o nell’episodio nel quale gli austriaci chiedono ai soldati italiani che stanno avanzando facendosi massacrare di smetterla, di ritirarsi: i “nemici” si alzano sulle trincee smettendo di sparare.

   Il nemico è invece all’interno dei rispettivi fronti; sono i vertici militari e politici. Il titolo adombra quindi un altro conflitto, la lotta di classe tra chi ha e chi non ha, tra chi comanda e chi deve sottostare a ordini, e a un ordine sociale, ingiusti. È questo il significato più generale che il film assume e la guerra diventa un tragico pretesto per alludere alle ingiustizie che pervadono il mondo. Mentre rimane una forte condanna della guerra, il film, oggi, come allora, ci parla anche d’altro, ci parla della società in generale e della condizione umana. Ma ciò è proprio dell’opera d’arte: contingente e universale al tempo stesso.

   A proposito dell’aspetto politico, qualche critico ha rilevato che Rosi in Uomini contro ha dato un’interpretazione marxista della grande Guerra, e lo fa riprendendo dal filosofo ungherese György Lukács i concetti di “totalità”, “realismo”, “tipico”. In quest’ottica si sottolinea la dialettica tra il momento storico particolare e gli sviluppi successivi del conflitto di classe. La trincea svolge la stessa funzione della fabbrica, e il fante, come l’operaio, resta ignaro del disegno complessivo e del “prodotto” d’insieme. Il sistema trascende il fante come l’operaio. Nel film, in definitiva, si crea una dialettica tra alto e basso: da un lato il regista trae dai documenti una visione d’insieme, dall’altro però riproduce il punto di vista di chi combatte nelle trincee. Non solo: Rosi guarda al libro di Lussu come prodotto “tipico” di quella determinata fase storica e delle relazioni di classe che la caratterizzano. In definitiva, la chiave marxista “non si esplica solo nel fatto che Rosi abbia applicato una lettura di classe al conflitto narrato, ma nella presentazione della totalità economico-ideologica del conflitto allora in atto” (Mimmo Cangiano, Raccontare la totalità. Uomini contro di Francesco Rosi, 2017, cit. e discusso da Santella a p. 118 e passim).  

 

- Savino Carrella – Pasquale Gerardo Santella, Uomini contro di Francesco Rosi, ill., Gremese 2021, p. 144

- Savino Carrella – Pasquale Gerardo Santella, Les Hommes contre de Francesco Rosi, ill., Gremese International 2021, pp. 140




lunedì 27 giugno 2022

Raffaele La Capria, "Il fallimento della consapevolezza", 2018

 di

Enzo Rega


Ripropongo una mia recensione di una raccolta di articoli di Raffaele La Capria apparsa ne  L'Indice dei libri nell'ottobre 2019






La finzione di una finzione

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di Enzo Rega

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Raffaele La Capria

IL FALLIMENTO DELLA CONSAPEVOLEZZA

pp. 120, € 18,

Mondadori, Milano 2018





“Io sono nato nel 1922 a Napoli, in una città che ha molti volti e che recita sé stessa; dove è ambigua, come in ogni recita, la linea di demarcazione tra vero e falso”. Così si apre il primo degli interventi di questo volume che raccoglie vari scritti disseminati nel tempo (peccato che l’editore non ne riporti la data e l’indicazione dell’uscita originaria) e nei quali La Capria fa i conti con la propria scrittura e con la propria vita, a partire dalla falsa partenza in epoca fascista. L’ancora di salvezza è allora la letteratura, filtrata da un critico come Benedetto Croce, punto di riferimento dell’antifascismo e che, al di là delle sue idiosincrasie personali, dà gli strumenti per accedere anche agli autori che lui non ama: Rimbaud, Verlaine, Baudelaire, Proust, Joyce, Musil. Ma soprattutto insegna che attraverso la letteratura si intraprende un cammino verso la libertà. In quegli anni si assiste anche a un vivace fermento nella lingua letteraria: un italiano penetrato dai dialetti, misto di prosa e versi, intriso di dannunzianesimo, o ancora un italiano ermetico. Ma lo stesso italiano regionale (Brancati, Pratolini, Rea, Pavese, Gadda), inviso al regime fascista, attinge un’universalità – dichiara La Capria – che non fa sfigurare la nostra letteratura nel contesto europeo.

   Ma dall’Europa è d’obbligo il ritorno alla sua città per riflettere su quel tempo che a Napoli sembra avvitato su se stesso, che è il tema de L’armonia perduta pubblicata nel 1986, venticinque anni dopo Ferito a morte, il suo libro più celebre. Annota La Capria: “Ci sono città, soprattutto le città del Mediterraneo, il cui processo storico si blocca e in qualche modo sopravvivono a sé stesse. Parlo non solo di Napoli, ma anche di Venezia, Palermo, Costantinopoli, Alessandria, città che hanno voltato le spalle alla modernità e sono perciò molto differenti da Parigi, Londra, New York, dove ogni momento storico ha avuto giorno per giorno il suo naturale sviluppo”. Chi vive in queste città deve dunque farsi carico individualmente di portare avanti lo sviluppo per “restituire alla città una continuità con il presente”. Il blocco storico di Napoli viene individuato nell’esito negativo della Rivoluzione napoletana del 1799. Questa situazione di immobilità era già intuita in Ferito a morte che si apre in una sorta di dormiveglia. Ma l’espressione “armonia perduta”, continua lo scrittore, può trarre in inganno perché “fa pensare alla nostalgia per qualche cosa che c’era e ora non c’è più”. Non è così, ma questa formula serve a comprendere la napoletanità: “fu sempre vagheggiata l’idea di una Napoli ‘dove sorridere volle il creato’; la Napoli della gouache, la Napoli delle canzoni appunto, la Napoli di quest’Armonia vagheggiata, sognata, cantata”. È il tentativo di sanare la ferita del 1799 dunque a creare il mito dell’armonia perduta: “Insomma la napoletanità che è venuta fuori da questa recita è la finzione di una finzione e su questa è fondata”. 

   Un ritratto amaro e caustico di una città e una critica del cliché nel quale è imprigionata. Ma in un intervento successivo, La Capria chiarisce il proprio ruolo: “La funzione dello scrittore è sempre quella di porsi come critico della società cui appartiene, non in senso negativo, ma come portatore di una conflittualità interna alla società che dovrebbe essere vivificante e creativa e servire a migliorarla”. Anche se la voce degli intellettuali – ammette – suona sempre più fioca: non ci sono più maestri come Croce ed Ernesto Rossi, Moravia e Pasolini. Pasolini che “per primo ha avvertito i segnali di una catastrofe ambientale e antropologica, visibile in modo violento soprattutto nelle periferie delle città”, una devastazione che riguarda anche la città di La Capria: la napoletanità è terminata nel 1945, “ed è stata sempre più alterata dall’avvento di una modernità male assimilata e dal consumismo che ha devastato l’Italia”. Quindi, da un lato Napoli ci appare immobile, dall’altra pure toccata dai guasti di una malintesa modernità.  

   La città però può uscire dalla sua identità recitata riannodandosi agli aspetti migliori della civiltà occidentale, e “normalizzarsi”. Ciò può essere possibile perché Napoli ha sempre avuto una doppia identità: locale ed europea. Si possono dunque stornare gli occhi dal “piccolo cerchio della nostra piccola identità” per volgerli “verso spazi più aperti”.

   Per questo La Capria non tollera l’espressione “letteratura napoletana” anche perché chi scrive aspira a un respiro più ampio, benché le proprie radici diano una connotazione particolare alla scrittura. Così Ferito a morte è scritto in una lingua intraducibile e composita: “La mia lingua è un italiano costruito sulla struttura sintattica del dialetto napoletano. È come se ci fosse dentro l’anima, lo scheletro e la forma della frase napoletana. Le parole invece sono tutte italiane. Il risultato è una fonia che si sente come un italiano parlato da un napoletano. Un italiano cantato, con l’accento mediterraneo”.




"L'Indice dei libri del mese", n. 10 - ottobre 2019



domenica 29 maggio 2022

Beppi Improta, "Due o tre cose che so" di cinema

 

RICEVO E PUBBLICO




È uscito un interessante libro sul cinema di Beppi Improta, dal titolo decisamente accattivante "Due o tre cose che so" di cinema. Si tratta di un volume corposo di 420 pagine e 100 fotografie e raccoglie riflessioni, impressioni, note critiche e curiosità sui film degli ultimi anni e non solo. Attualmente il libro è disponibile solo presso Gedi Gruppo editoriale ma tra poco più di una settimana verrà distribuito anche da IBS, Amazon e Feltrinelli. Sopra la bella foto della copertina.


*Beppi Improta, "Due o tre cose che so" di cinema. Ovvero alcune riflessioni guardando tra le cose dei film , pp. 420, 2022


Riflessioni antologiche sul cinema contemporaneo e non, i suoi registi, testi autoriali e capitolo fotografico.

domenica 27 marzo 2022

VENTIMIGLIA OVVERO UN ITINERARIO LETTERARIO. (Ipo)tesi di documentario

 di 

FRANCESCO IMPROTA E VINCENZO TERRACCIANO 

 

 

 

 

                                                                                                                     


                (Ipo)-Tesi di documentario


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                       Perché (Ipo)-Tesi di documentario?

 

 Il cinema documentario - ma anche quello di fiction - non è mai documento tout-court perché la trasposizione in immagini del dato realistico non può che essere una reinvenzione del momento oggettivo della realtà.

   Il cinema è organizzazione di porzioni di realtà a sé stanti che attraverso un uso precipuo e mirato di quelli che sono gli strumenti del linguaggio cinematografico (scelte di inquadrature, scansione ritmica e temporale e soprattutto il montaggio) rispecchiano delle scelte interne, quelle dell’autore e, a priori, quelle del committente.

   Il documentario non è un’indagine scientifica (a meno che non si tratti di un documentario industriale, ma anche in quel caso sarebbe difficile stabilire il contrario a causa del linguaggio attraverso cui si esprime) ma un racconto per immagini sorretto da una sua precisa drammaturgia e da oculate scelte di campo.

   La distinzione quindi tra film a soggetto e film documentario si rivela, ad una riflessione, come arbitraria, artificiale, e puramente verbale, nonché di ragione economica. Ed inoltre tale distinzione non può essere giustificata da un punto di vista logico ed estetico rigoroso. È quindi su tali presupposti, per quanto abbozzati, che si intende impiantare e strutturare un’idea di documentario sulla città di Ventimiglia.

 

  

                                                         2

 

 VENTIMIGLIA, OVVERO UN ITINERARIO LETTERARIO

 

   Se in un film a soggetto la drammaturgia è sorretta da una sceneggiatura, cioè una storia nel senso codificato del termine (ed è forse questa la differenza che esiste tra film fiction e film docu­mentario) in un documentario deve esserci qualcosa di altrettanto forte capace di reggere il racconto. In un documentario la possibilità di raccontare viene data da una precisa idea di fondo scritta, elaborata e scalettata in virtù del materiale visivo che agli autori si rivela in mirati sopralluoghi.

 

       Ventimiglia è una cittadina turistica ed in quanto tale offre un incredibile materiale scenografico a chi intende guardarla attraverso la lente di un obiettivo. Ma al tempo stesso si può correre il rischio di mettere insieme solo delle edulcorate immagini da dépliant pubbli­citario. L’idea che qui viene proposta è un excursus letterario attraverso il quale si vuole coniugare il patrimonio paesaggistico con un altro assolutamente poetico che permetta di raccontare un presente non come memoria di un passato morto ma come materia esistente di chi ha sperimentato un passato.

 

       Ventimiglia intende essere raccontata attraverso le immagini di una memoria poetica, pertanto il Virgilio che ci aiuterà a ripercorrere i topoi ventimigliesi sarà un itinerario poetico che potrebbe partire dalla famosa lettera - datata appunto Ventimiglia (19-02-1799) - dello Jaco­po Ortis di Ugo Foscolo per poi reinventare in immagini la magia di un paesaggio ermetico descritto nei versi di Salvatore Quasimodo. Perdersi tra le viuzze di Ventimiglia alta per riscoprirle e reinventarle attraverso gli occhi infantili che scrutano il mondo, in maniera verginale, dei fanciulli nei versi di Camillo Sbarbaro.

  

        L’idea della letterarietà non deve indurre in errore; la letterarietà non vuole essere un tocco di cultura su immagini patinate, né un espediente per eventuali pretese di qualità; sarebbero delle storture di un tipo di documentario che mira a tutti i costi, quando la macchina da presa arranca, a suggestionare lo spettatore.

 

 

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L’idea e le immagini dovranno muoversi in mutuo soccorso, creare quell’osmosi necessaria affinché la città di Ventimiglia pur se vista attraverso il "terzo" occhio non tradisca senso, significato e valenze di una cittadina se vogliamo turistica e di frontiera.

 

 

                               APPUNTI DI UN VIAGGIO

 

           Viaggio di un’anima alla ricerca di sé e di una città alla ricerca della sua memoria. Viaggio attraverso il tempo di un’anima senza città che, attraverso uno spazio anonimo ed insignificante, ha corso il rischio di “mineralizzarsi” (Sbarbaro).

           È un racconto senza storia che utilizzerà in funzione espressiva e narrativa gli elementi dello specifico filmico (ritmo, musica, suoni, colori, luci e rumori) per creare immagini decontestualizzate, metafo­riche e metonimiche, cariche di valenze simboliche. La fenomenologia del viaggio, oggettiva (le cose viste, le figure incontrate) e soggettiva (i sentimenti sofferti, le cose fatte) mirerà a visualizzare le emozioni vissute da poeti e scrittori (Foscolo, Sbarbaro, Quasimodo, Biamonti e Orengo) che hanno fatto di Ventimiglia un topos dell’anima, tappa obbligata delle loro scorribande sentimentali, e al tempo stesso a scuotere l’immaginario individuale e collettivo degli spettatori.                                

 

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                          I PERCORSI DELL’ITINERARIO

 

           Titoli di testa: la macchina da presa dalla marina, alla foce del Roja, risale lungo la vallata a riprendere le montagne sullo sfondo e le pendici delle colline. La voce fuori campo recita testualmente: "... Laggiù è il Roja, un torrente che quando si disfanno i ghiacci precipita dalle viscere delle Alpi, e per gran tratto ha spaccato in due queste immense montagne. Vi è un ponte presso alla marina che ricongiunge il sentiero. Mi sono fermato su quel ponte, e ho spinto gli occhi sin dove può giungere la vista; e percorrendo due argini di altissime rupi e di burroni cavernosi, appena si vedono imposte sulle cervici delle Alpi altre Alpi di neve che s'immergono nel cielo, e tutto biancheggia e si confonde: _ da quelle spalancate Alpi cala e passeggia ondeggiando la tramontana, e per quelle fauci invade il Mediterraneo. La Natura siede qui solitaria e minacciosa, e caccia da questo suo regno tutti i viventi." (Ugo Foscolo)

 

1°) Paesaggio marino (Balzi Rossi).

           Le prime immagini saranno rubate agli elementi caratteristici di tale paesaggio. Luci abbacinanti di corone solari, immagini brulle di rocce arroven­tate che fungono da prologo per un itinerario che avrà presente gli elementi fondamentali della vita marina. Tali immagini saranno contrappuntate ora da suoni naturali ora da effetti sonori e musicali che racconteranno anche per sineciosi stilistiche.

      Il terzo occhio (potremmo definirlo “impazzito”, leggi in questo aggettivo un atteggiamento di montaggio) cerca tra gli elementi naturali e non gli ultimi segni di una condizione naturale ed umana.

 

 2°) Paesaggio floreale (Giardini di Hanbury).

      Alla luce e ai suoni dominanti nella sequenza precedente si sostituiscono i colori e gli aromi del paesaggio in questione, non considerati semplici immagini policrome ma elementi portanti di una struttura narrativa (sono previste per queste immagini ricostruzioni sonore).

             "... narciso solitario, tazzetta gradevolmente odorosa, giaggiolo ensiforme, spadacciola a spiga lassa e a fiori distici, concordia macchiata a bruno, bocca di gallina dal labello villoso, gigaro-giaro giallastro.

           E me ne stavo lì in mezzo, seduto in mezzo ai fiori, che ce n'è di tutte le qualità e di tutti i colori. Ma è un attimo che mi godo questo arcobaleno perché mi accorgo che qualcosa è rimasto fuori dal pentagramma. Qualcosa che faccia rumore sopra i fiori, agitando ali, zampe, antenne, addomi e toraci e qualche paio di ocelli: le farfalle. [...] Ora tutto intorno c'è un brusio felice di corolle e foglie, ali e zampe come una tiepida risacca notturna." (Nico Orengo)

         Sorge a questo punto l’esigenza di focalizzare attraverso segnali intermittenti il tema di controllo del nostro racconto cinematografico.

 


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 3°) Paesaggio fluviale (ponte sul Roja)

       L’occhio della m. d. p. evita tutto ciò che sa di oleografico per indugiare sugli elementi di contorno che vivono ai margini della vita e che in un’esistenza deprivata e depauperata, diventano la vita stessa (palmipedi, cespugli, tronchi che strozzano il libero fluire delle acque). La m. d. p. raccoglie inavvertitamente immagini del quotidiano cui fa da sfondo un brusio indistinto.

        I segnali intermittenti chiedono cittadinanza visiva.

 

4°) Marina (Marina S. Giuseppe).

   Particolari condizioni di luce renderanno inusuale l'usuale creando epifanie ed intermittenze del cuore, decodificando la banalità: barche come ossi di seppia sulle spiagge.

 

 5°) Paesaggio arboreo.

        La m.d.p. risale lungo la vallata per indugiare tra le ombre argentee degli ulivi.

         "... Uliveti, carezzati in quell'ora da una brezza triste, casette attraversate dall'alba come da una tremolante agonia, muri che per secoli avevano reso arabile la terra, sbilenchi e carichi d'aria.

[...] Adesso la luce era potente, a blocchi e, più che tremare, sembrava rotolare sull'altopiano. [...] Punte argentee di mare entravano nel cielo quasi in risposta al richiamo degli ulivi." (Francesco Biamonti)

 

 6°) Paesaggio cittadino (Ventimiglia alta).

      «In Ventimiglia vecchia i lampioni accendevano tardi sulle strade, le case respiravano aperte la notte.., sulle soglie le donne aspettavano il sonno». (Camillo Sbarbaro)

    Questi versi di Sbarbaro ci offrono il filo di Arianna per orientarci fra la ragnatela di strade nel borgo antico. Siamo inghiottiti nei budelli trasfigurati da una luce polverosa. La m. d. p. scruta e si muove senza una meta prestabilita. È solamente il ritmo di un respiro ansimante il viatico della nostra ricerca. Una prima tappa verrà effettuata in una taverna dal sapore antico. Verrà ricostruita la scena descritta da Sbarbaro in “Trucioli”: in un angolo della taverna un poeta (?) "siede assorto ad un tavolo, dinanzi ad una bottiglia di vino bianco, color oro"; la musica ancora una volta sarà funzionale al senso delle nostre immagini.

     Piazza S. Michele (Ventimiglia Alta)

      L’ultimo luogo del nostro itinerario a Ventimiglia alta è in piazza S. Michele.


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      Ancora una volta i versi di Sbarbaro ci soccorrono nella narrazione di un’atmosfera trasognata e surreale: "...Un bambino che passava a mano di una donna s’impuntò, smaniando alla luna come verso un giocattolo nuovo...».

 

7°) Paesaggio cartaceo (Biblioteca Aprosiana, Ventimiglia alta).

      Un percorso che si muove tra presente e passato, attraverso la mediazione della memoria, non può tralasciare la Biblioteca Aprosiana che riteniamo giusto inserire nel nostro racconto e come patrimonio storico e per le sue valenze simboliche di una cultura che spesso non riesce ad innervarsi sulla realtà. La nostra indagine visiva, dopo aver spaziato tra le linee geometriche della biblioteca e dopo aver fatto “sentire” la polvere del tempo, si soffermerà “religiosamente” su particolari di codici miniati, indelebile ed insostituibile testimonianza di un passato non del tutto esperito e di un rapporto diverso, immediato, fisico, con il libro. Queste sequenze saranno accompagnate da cori del ‘600 musicati su testi latini.

                                                              

        La m. d. p. ritrova il suo poeta. Esce dalla taverna, barcolla; lo raggiunge e lo ingloba, scende con lui, passa vicino al teatro comunale, si ferma, delle immagini si accavallano, alla struttura fatiscente del teatro attuale si sovrappone quella di una fotografia d’annata... Irrimediabilmente il sogno si dissolve.

 

 8°) Paesaggio aereo.

       La m. d. p. s'impenna verso l'alto e ondeggia sulle ali dei gabbiani che sul far della sera si allontanano a stormi. Suono in presa diretta del loro rauco grido. Voce fuori campo (come in precedenza).

  "... intonacati d'aria andavano al mare ancora marmoreo come a un letto di pace" (Francesco Biamonti)

 

 9°) Paesaggio fluviale

    Alba. Ponte sul Roja. In lontananza scorgiamo il nostro compagno di viaggio (il poeta). Passeggia sul ponte, indugia, guardando ora a destra, ora a sinistra, quindi solleva lo sguardo. In campo lungo Ventimiglia alta. La m. d. p. gli va incontro, lo incrocia e lo supera. Il libro che aveva sotto il braccio è in acqua spaginato.

  

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                                                  Titoli di coda


             (Poesia di Salvatore Quasimodo. "Alla foce del Roja").

 

                                          

                   Un vento grave d'ottoni

                   mortifica il mio canto,

                   e tu soffri a grembo aperto

                   la voce disumana.

 

                  Da me divisa s'autunna

                 ai moti estremi giovinezza

                 e dichina.

 

                La sera è qui, venuta ultima

               uno strazio d'albatri;

               il greto ha tonfi, sulla foce,

              amari, contagio d'acque desolate.

 

              Lievita la mia vita di caduto,

              esilio morituro.

 

  *

                                      

Francesco Improta e Vincenzo Terracciano

    Ventimiglia, primavera 1992


*


Galleria di immagini


Il paesaggio: Ventimiglia e i Giardini Hanbury








 I personaggi



Francesco Biamonti ai Balzi Rossi

Nico Orengo nei Giardini Hanbury
             


Salvatore Quasimodo

Camillo Sbarbaro

  

 

  

 

 

 

 

 

domenica 6 marzo 2022

BIAMONTI E KUBRICK

 

 di

FRANCESCO IMPROTA      

         



Alla base della narrativa di Francesco Biamonti c’è lo sguardo, nel senso che nei suoi romanzi le cose sono colte sempre nella loro visibilità ed i personaggi sono legati gli uni agli altri e agli oggetti circostanti attraverso gli sguardi ed è ciò che fa di lui uno scrittore decisamente cinematografico. Fino a non molto tempo fa ero fermamente convinto che il regista più vicino a Biamonti, spiritualmente e culturalmente, fosse Bresson; entrambi, infatti, cercano di sottrarsi alla rappresentazione attraverso la frammentazione, riducendo, cioè, all’essenziale i contrasti ed affidando alla concisione e all’ellissi la forza d’impatto con il lettore o con lo spettatore. Dopo aver letto, però, il bellissimo saggio di Sandro Bernardi (“Kubrick e il cinema come arte del visibile” Pratiche editrice) e dopo aver io stesso organizzato una rassegna di film di Kubrick ho avvertito la tentazione, rischiosa ma intrigante, di accostare lo scrittore di San Biagio della Cima al regista newyorkese, certo non sul piano dei contenuti, dove le differenze sono vistose e probabilmente incolmabili, ma sul piano del carattere, del comportamento e dello stile. 

 Contemporanei e quasi coetanei (Biamonti era più vecchio di soli 4 mesi) hanno vissuto e testimoniato la crisi di questi ultimi decenni, attraverso opere d’eccezionale bellezza che hanno dato lustro e spessore al cinema e alla letteratura contemporanee. Le analogie sono rintracciabili, innanzitutto, nel modo di vivere: lontani dalla folla entrambi, chiusi in un’aristocratica e severa solitudine, nel tentativo di perseguire con ferocia la loro purezza umana ed artistica: relegato nel suo castello di Sant Adams, lontano da sguardi indiscreti Kubrick; appollaiato sulle colline dell’entroterra intemelio, fra gli ulivi argentati e le profumate mimose, Biamonti. Le uniche sortite erano, per Kubrick (morto nel 1999) le passeggiate in automobile con il fido autista che non doveva mai superare la velocità di quaranta miglia, e per Biamonti quasi fino alla fine, avvenuta l’anno scorso, i vagabondaggi notturni sulla costa, a dispetto della grave malattia che ne aveva intaccato la fibra robusta, in cerca di volti, di situazioni e di esperienze da trasportare nei suoi romanzi. Anche a Francesco non piaceva la velocità, probabilmente perché gli impediva di guardarsi intorno e di assaporare degnamente la vita o di percepire con la necessaria chiarezza la realtà, e quando un giorno, sull’Autostrada dei Fiori al volante della mia autovettura, avevo pigiato il piede sull’acceleratore, Francesco, seduto accanto a me, con un accento tra il severo e il sarcastico, mi disse: “Non sarai mica diventato un futurista?” Entrambi, perfezionisti fino alla mania, sono tornati più volte sulle loro opere correggendo, tagliando, aggiungendo scene, immagini, semplici parole; nel suo ultimo film “Eyes wide shut” Kubrick ha fatto ripetere, ad un attore del calibro di Tom Cruise,  novantasei volte un’azione di una semplicità disarmante (si trattava di chiudere una porta) e Biamonti riscriveva decine di volte la stessa pagina nel tentativo, sempre coronato da successo, di raggiungere una scrittura scarna, prosciugata e pregnante come non mai, una scrittura “liricamente arida” – mi si passi l’ossimoro che è del resto la figura dominante nei film di Kubrick. Il cinema di Kubrick, infatti, non diversamente da quello di Ejzenstejn, di Pasolini e di Godard, poggia sulla forza della contraddizione: i suoi film sono contrassegnati, al tempo stesso, da uno slittamento in avanti, verso il futuro, il nuovo, e da un altrettanto significativo salto all’indietro, al passato, alle origini del cinema nel tentativo, in questo caso, di recuperare le caratteristiche peculiari della fotografia e della pittura,  da cui il cinema discende in linea diretta, con buona pace di coloro che ne hanno fatto “un genere letterario”, dando importanza esclusivamente alla sceneggiatura; si determina, pertanto, nei suoi film una discrasia fra le immagini e il racconto, per cui le immagini spesso sembrano contraddire il discorso che  pure a loro  è affidato; fuoriescono, cioè, dal racconto, acquistando una loro piena autonomia ed in questo caso si può dire, citando Nietzche, che “il particolare oscura l’insieme e cresce a sue spese”. Nasce un contrasto tra la significazione che è racconto e la visione che è percezione, tra ciò che le immagini mostrano e ciò che esse significano. Si assiste ad un impoverimento della significazione, e quindi del racconto, a tutto vantaggio della visibilità, e quindi della percezione, come sostiene acutamente Sandro Bernardi nel suo bellissimo saggio su Kubrick. I film di Kubrick - come quelli di tutti i registi più grandi - “non mostrano immagini per raccontare storie ma raccontano storie per mostrare immagini”; la storia è il mezzo non il fine, non è un caso che tutti i movimenti della m.d.p. (panoramiche, carrelli  a precedere, zoom, carrelli indietro o laterali etc.) tendono a forzare la scrittura cinematografica, svuotando l’enunciato e limitandosi ad istituire e a formalizzare uno spazio ed un tempo, cioè le coordinate fondamentali di qualsiasi forma di espressione e di comunicazione. Sono movimenti oserei dire immobili (ritorna la figura retorica dell’ossimoro) e mirano a creare uno spazio non diegetico ma iconico, non funzionale al racconto ma chiuso, isolato e legato nell’autorappresentazione, come in un quadro o in una fotografia. Gli stessi primi piani non s’inseriscono, integrandosi, in precise sequenze narrative ma vivono da soli metonimicamente, meglio ancora per sineddoche, sono parti che rappresentano il tutto. Per quanto riguarda il tempo va detto che in Kubrick il tempo si allarga a dismisura, si moltiplica, nel senso che nei suoi film si assiste alla coesistenza di passato, presente e futuro e talvolta il tempo si materializza, diventando addirittura visibile, come in “Rapina a mano armata”, dove il tempo ritorna continuamente su se stesso, si contrae e si sfilaccia, fino a diventare il vero protagonista della storia. Anche in Biamonti prevale la percezione sul racconto, non a caso i suoi modelli sono Merleau Ponty e l’ecole du regard, ed il tempo, come  abbiamo visto in Kubrick, si dilata ed acquista molteplici valenze in quanto è filtrato attraverso la coscienza e soprattutto la memoria dell’autore e dei suoi straordinari personaggi, legati alla terra d’origine eppure sempre pronti a viaggiare, incapaci, come sono, di mettere radici perché il mondo frana irrimediabilmente e non offre approdi o ancoraggi possibili; ne consegue che il paesaggio, vero protagonista dei romanzi di Biamonti, pur conservando tutta la sua concretezza, non è la cornice materiale delle vicende raccontate ma è un paesaggio dell’anima, materiato d’angosce, di ossessioni, di labili e confuse speranze. Lo spazio, quindi non diversamente che in Kubrick, è iconico ed autoreferenziale, scarsamente funzionale alla storia, sempre esile e povera di casi, ma carico di valenze simboliche e di suggestioni non comuni. Straordinario mago della luce, come tutti coloro, o quasi, che fanno dello sguardo lo strumento privilegiato di percezione e di conoscenza, con la grazia di uno stile che più che un dono naturale è una severa conquista, Biamonti descrive i cieli bassi della Liguria, il delirio del mare, d’ascendenza montaliana, la luce del giorno che rotola a blocchi sulle rocce  e sulle fasce, i tronchi contorti, piegati/piagati dal vento degli ulivi e il profumo  penetrante delle mimose o della lavanda con l’intensità e la forza rappresentativa di Cezanne o, nell’ultimo romanzo - ambientato quasi tutto di sera - di George de la Tour. Anche il tempo, come abbiamo accennato prima, non è scandito dal trascorrere delle ore e neppure dal battito del cuore, esso è filtrato dalla memoria, da emozioni, in essa depositate, che si contraggono o si dilatano a seconda dei casi, ed infatti, spesso Biamonti privilegia i tempi morti, quelli che favoriscono i soprassalti della memoria e le intermittenze del cuore, eppure talvolta il tempo si materializza e diventa, quindi, visibile nella luce che al tramonto sanguina come una ferita, prima di dileguare dietro la montagna, o nel verso rauco dei gabbiani, che “intonacati d’aria  andavano al mare come ad un letto di pace”.

Entrambi, infine, sono riusciti a frantumare con un pessimismo sempre più raggelante mode, miti ed illusioni, “ le magnifiche sorti e progressive”, preannunciando con largo anticipo la deriva del secolo ed il crepuscolo della civiltà occidentale; si pensi alla visione negativa del mondo e degli uomini che traspare da “ Full metal jacket”, il film per molti versi più emblematico di Kubrick, e al nichilismo di Biamonti, che discende in linea diretta da Montale, con la sola differenza che nel poeta genovese s’intravede un’oltranza o, meglio ancora, la probabilità improbabile del “miracolo” (Forse un mattino andando in un’aria di vetro,/ arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:”, in Biamonti, invece, non c’è nessuna possibilità di salvezza o di riscatto. “Anche il mare –al quale egli aveva affidato le residue speranze di redenzione- non riesce più a purificare i cuori”, come si legge in “Attesa sul mare”. In un’intervista, rilasciata nell’immediata vigilia del nuovo millennio, ad una precisa domanda sul futuro del mondo egli ha testualmente risposto: “Il secolo muore nel disonore e nella vergogna ed il futuro non sarà certo migliore. È tutto un mondo, infatti, edificato sulle rovine e sui delitti”. 

Ringrazio Francesco Improta per avermi concesso di ripubblicare questo pezzo originariamente apparso in      

  http://www.bartolomeodimonaco.it/parliamone